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BUTTARE LE RETI ? NON TUTTE FORSE,MA QUALCUNA SI’

Una lettura raccomandata per questo “strano” Agosto 2020 è questo scritto che il Biologo marino Angelo Mojetta ha “appuntato” per BFGF.  Angelo Mojetta è un noto esperto di biodiversità acquatica  e autore di pregevoli libri dedicati alla vita marina in Mediterraneo e in Mar Rosso. Angelo nelle sue presentazioni unisce ad una capillare conoscenza anche una sottile ironia tendente a rendere meno crudo il rapporto fra uomini e pesci. E’ stato fra i primi fondatori dell’Istituto per gli Studi del Mare (ISM) negli anni più propositivi per una attivita culturale e di divulgazione presso l’Acquario Civico Milanese. L’’uso e i danni delle Reti da pesca viene da lui esaminato attraverso un percorso storico e funzionale e che fà si che lo strumento di cattura sia sempre più efficente ed economico nell’uso, ma con scarso riguardo alla biodiversità /risorsa sempre più intaccato da scelte di consumo su scenario mondiale.

Buona lettura, Roberto Di Lernia

Le reti sono il più classico degli strumenti di pesca il cui uso accompagna la storia dell’uomo da almeno 4000 anni durante i quali il principio base di costruzione e impiego di questo attrezzo non sono cambiati. A riportare la nostra attenzione sulle reti è stato il recente episodio di “Furia”, il capodoglio femmina rimasto impigliato con la coda in una rete derivante e illegale, che è stato oggetto di un lungo tentativo di salvataggio da parte della Guardia Costiera e di un gruppo di esperti biologi e subacquei  che però non sono riusciti a liberare del tutto la coda del cetaceo di cui si sono perse le tracce per ora e che si spera sia riuscito in qualche modo a sopravvivere nonostante le difficoltà dovute alla presenza di un ammasso ancora cospicuo di reti attorno alla coda.

Le reti, forse più di ogni altro attrezzo da pesca, hanno accompagnato la storia dell’uomo e si sono evolute con il tempo pur conservando la primitiva struttura a maglie dividendosi in categorie come le reti da traino, le reti a circuizione, le reti derivanti, le reti volanti (tutte usate prevalentemente dalle imbarcazioni più grandi) e reti da posta e sciabiche che sono caratteristiche della piccola pesca. Con il tempo sono cambiati i materiali non più naturali ed ecocompatibili, ma sempre più a base di polimeri tenaci, indistruttibili e praticamente invisibili una volta in azione. Motivi di questa evoluzione e specializzazione sono stati da un lato la riduzione dei costi dei materiali (una rete moderna, in genere, non vale il costo di una grossa riparazione mentre un tempo la rimagliatura era un’operazione necessaria affinché l’attrezzo durasse il più a lungo possibile) e dall’altro la necessità di pescare in maggiore quantità una risorsa che lentamente si è ridotta fino al punto, per alcune specie, di non essere più una cattura remunerabile.

Il progresso tecnico, iniziato con il graduale passaggio dalla navigazione a vela a quella a motore, ha fatto sì che all’inizio del 1900 nascesse la scienza della pesca che gli esperti del settore fanno risalire ai lavori del danese Petersen, che mise a punto una metodologia per valutare l’età dei pesci attraverso la loro lunghezza, e di Heincke che, grazie ai suoi studi sulle aringhe, gettò le basi per lo studio delle popolazioni delle specie ittiche. Nel 1902 nacque il Consiglio Internazionale per l’Esplorazione del Mare destinato a raccogliere informazioni e predisporre statistiche sulla pesca, attività che ancora oggi viene svolta con una continua e molto più grande raccolta di dati giacché la scienza della pesca è diventata una delle maggiori realtà della ricerca scientifica in mare nel tentativo di regolamentare o almeno di trovare una chiave condivisa a livello globale per la gestione e il prelievo delle risorse marine che oggi si attesta mediamente attorno a poco più di 80 milioni di tonnellate dopo aver raggiunto un massimo di 86,4 milioni di tonnellate nel 1996. A questi numeri bisogna aggiungere i 12 milioni di tonnellate provenienti dalle acque dolci e gli 82 milioni di tonnellate provenienti dall’acquacoltura sia marina (ca. 32 milioni) sia d’acqua dolce (51 milioni). I dati, pubblicati dalla FAO nel 2020 (220 pagine di dati), si riferiscono al 2018 a causa dei tempi tecnici necessari per raccogliere le informazioni ed elaborarli.

Ciò che colpisce in questi numeri è che il maggiore incremento si deve alla pesca dell’acciuga del Peru e del Cile, destinata soprattutto ad alimentare il mercato delle farine di pesce dal che si evince che peschiamo pesce per alimentare pesce che poi noi mangeremo e chi conosce le regole del passaggio di energia nelle catene trofiche può ben capire quale sia lo spreco conseguente. Tra le nazioni che più pescano e che quindi hanno maggiori responsabilità nelle catture mentre ad altre nazioni, Italia compresa, rimane la responsabilità altrettanto grande di orientare i prelievi in base ai nostri gusti e preferenze, troviamo la Cina, l’Indonesia, il Peru, la Federazione  Russa, gli Stati Uniti e il Vietnam. Queste sette nazioni pescano il 50% del prodotto mentre le altre nazioni comprese tra i primi 20 paesi attivi nel settore pesca sono responsabili di un altro 24%. L’85% delle catture è costituito da pesce azzurro seguiti da merluzzi e affini e da tonni genericamente intesi.

Bisogna tuttavia sottolineare come la FAO metta in evidenza che la maggior parte delle risorse ittiche sia oggi pescata con tecniche che riescono ad essere biologicamente sostenibili e che, anzi, tali tecniche sono sempre più prevalenti. Come detto all’inizio la maggior parte di questi prelievi avviene per mezzo di reti che sono sempre più grandi ed efficienti. Se le dimensioni potrebbero essere giustificate in ambiente oceanico, non lo sono affatto in Mediterraneo dove le famose spadare che si credevano scomparse sono ancora in azione con vari sotterfugi per catturare, in fondo, una quantità di pesci proporzionalmente irrisoria.

Come ha commentato Andrea Morello, presidente di Sea Sheperd Italia, a proposito del capodoglio con la coda avvolta dalla rete di cui si è parlato a partire dal 19 luglio, data del suo primo avvistamento alle isole Eolie, “Furia ci ha portato la prova dell’illegalità presente nei nostri mari….  Solo quest’anno la Guardia Costiera ha già sequestrato oltre 100 chilometri di reti illegali, muri alti 42 metri capaci di catturare qualsiasi cosa passi loro attraverso. “Queste reti sono da vietare categoricamente”. C’è una morale in questo? Certamente, come messo in evidenza dalle attività di sensibilizzazione portate avanti da Blue Food-Green Future. Se si volesse essere davvero coerenti si dovrebbe cessare di mangiare pesce. Una soluzione estrema, ma che certamente non è impraticabile da parte dei singoli. Sono sempre di più, infatti, quelli che fanno questa scelta o si orientano verso specie ottime ai fini alimentari anche se non blasonate come tonni e salmoni.

Pescare era e dovrebbe restare un’arte basata sulle conoscenze tanto pratiche quanto scientifiche della vita nel mare. L’attività di pesca dovrebbe essere oggetto di un profondo ripensamento con la messa a punto di sistemi di gestione condivisi da cui sia eliminata ogni forma di illegalità anche con sistemi drastici, ma che vengano applicati. Forse il pesce aumenterà di prezzo, forse i quantitativi di certe specie diminuiranno, forse parte delle reti saranno buttate (a terra), ma avremo, forse, la certezza che anche in futuro i nostri figli potranno mangiare di questa risorsa, l’unica ancora assolutamente naturale che l’uomo può cacciare dopo aver trasformato la caccia terrestre in allevamento (con non pochi problemi). Sono tanti i forse, lo riconosco, e il problema non è di facile soluzione soprattutto perché abbastanza marginale dal punto di vista politico se si considerano i numeri in gioco.

Come Blue Food-Green Future non abbiamo soluzioni pronte. Possiamo sensibilizzare chi ci segue provando a fornire gli strumenti per una scelta consapevole affinché in futuro le reti buttate siano quelle giuste per un uso sostenibile del mare e delle sue risorse.

ANGELO MOJETTA , biologo marino , fondatore Istituto Studi del Mare ( ISM )

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