Il forum è stato particolarmente contrastato in quanto dalla discussione è emerso come una certificazione sulla pesca industriale è fuorviante rispetto alla realtà che la stessa rappresenta!
La certificazione industriale per definizione non può corrispondere al rispetto della biodiversità dei mari e i fatti lo dimostrano in tutta evidenza; l’esigenza sembrerebbe più legata a catturare la fiducia dei consumatori, piuttosto che ridurre significativamente l’impatto sulle risorse marine.
Una certificazione potrebbe attuarsi in modo molto più credibile per comunità “sostenibili” di pescatori locali , ognuna con le sue specifiche tipologie diversificantesi in diverse realtà di pesca e geografiche.
Ovvero è la comunità dei pescatori che diventa garante e custode delle pratiche sostenibili e a minimo impatto sull’ecosistema.
Qualcosa del genere Slow Food lo ha attivato e promosso con i “Presidi di Slow Food” ora numerosi nel Mondo.
Il suggerimento quindi potrebbe essere: perché non creare e diffondere per l’ambiente acquatico dei “Presidi Slow Fish” e con tutte le garanzie di rispetto che Slow Fish international potrebbe dare?
Roberto Di Lernia
VIZI E VIRTU’ DEL PESCE CERTIFICATO (fonte slowfood.it)
Possiamo immaginare uno standard, un logo, o una certificazione che difenda e rappresenti i valori di Slow Food nella pesca? È questo l’interrogativo che ci si pone da più parti (e che è tornato anche nei giorni di Terra Madre Salone del Gusto), dal momento che, in questi ultimi anni, i sistemi di certificazione sono stati spesso sotto attacco da parte di esperti di pesca, piccoli pescatori e specialisti delle Ong.
Secondo questi soggetti, le certificazioni rappresentano unicamente uno strumento utilizzato da certe società industriali di pesca al fine di rendere più “pulite” alcune pratiche di pesca che di sostenibile hanno ben poco.
Per “pratiche sostenibili” intendiamo tutte le tecniche di pesca che lasciano un numero sufficiente di pesci nell’oceano, in modo tale che le specie siano in grado di reintegrare le loro popolazioni in modo naturale. Questa crescente attenzione deriva dal fatto che nel corso degli ultimi anni le quantità di pesce consumate sono fortemente aumentate – circa 23 kg pro capite in Europa – e che il 33% del pescato viene catturato a livelli biologicamente insostenibili.
Dal rapporto The State of World Fisheries and Aquaculture è inoltre emerso che entro il 2030 la produzione totale di prodotti ittici raggiungerà i 201 milioni di tonnellate, registrando un aumento del 18% rispetto al livello attuale, che si attesta intorno a 171 milioni di tonnellate.
Charles Redfern, fondatore dell’associazione Fish4Ever, sostiene: «Se vogliamo essere sostenibili dobbiamo avere riguardo per le metodologie utilizzate. Il pesce industriale destinato al consumo umano, ammonta a 30 milioni di tonnellate prodotte all’anno e occupa meno di mezzo milione di persone: questo prodotto però genera scarti variabili dalle 8 alle 20 milioni di tonnellate, richiede sussidi fino a 27 miliardi di dollari e registrando un utilizzo di carburante pari a 37 milioni di tonnellate di petrolio. Per una pari quantità di pesce commercializzato su piccola scala, gli scarti sono quasi nulli, i sussidi richiesti e il carburante rilasciato sono cinque volte inferiori, gli addetti impiegati nella filiera invece salgono a quasi 12 milioni».
La pesca su piccola scala presenta, quindi, indubbi vantaggi dal punto di vista ambientale e sociale. L’ente che si occupa della certificazione globale è l’Msc, Marine Stewardship Council, una Ong che opera per diffondere la pesca sostenibile e la salvaguardia di mari ed oceani. Molti, però, sono stati gli interrogativi sulla necessità di identificare nuovi enti globali alternativi all’Msc.
«Fino al 1980, in Giappone, la maggior parte della pesca era di tipo industriale. Ora, invece, abbiamo un grande numero di piccoli pescatori che purtroppo hanno risorse limitate» spiega Nobuyuki Yagi, professore di economia della pesca all’Università di Tokyo. Questo rappresenta certamente un grande problema per la certificazione: nel 2006, erano solo quattro le pescherie artigianali certificate da enti britannici, scese a due nel corso degli anni: «Nel 2007 abbiamo creato la Marine Eco – Label Japan, che però non si basa su standard internazionali. Per ciò che concerne il lato del consumo, i giapponesi sono tra i maggiori fruitori di pesce, ma pochi sono a conoscenza degli standard che lo riguardano. A partire dagli anni Ottanta, a seguito delle massicce importazioni, i consumatori giapponesi hanno perso fiducia nei confronti dei produttori».
«Molte piccole pescherie in Messico avevano ottenuto la certificazione da parte dell’Msc ma, a causa delle ingenti tasse da pagare, l’hanno persa. Questo è certamente uno dei maggiori problemi che riguardano i piccoli pescatori» spiega Kim Ley Cooper, direttore della “Colectividad Razonatura”, una Ong orientata alla promozione dello sviluppo sostenibile, alla conservazione della biodiversità, dell’equità e della giustizia sociale.
È quindi necessario, continua, «sviluppare al meglio delle politiche di eco labelling a livello locale, sostenute dai governi, che vadano a riconoscere l’impegno della collettività. Per ciò che riguarda la fiducia dei consumatori, questa è una combinazione di diversi valori, tra cui la qualità del pescato e la conservazione delle risorse naturali».
«In Danimarca vogliamo sviluppare delle eco label pensate appositamente per i pescatori più piccoli, favorendo coloro che utilizzano delle metodologie sostenibili, diverse dalla pesca a strascico. Però, prima di parlare di certificazioni, è molto importante definire che cosa si intenda davvero per pesca certificata e per ecosostenibilità, pensando non solo alle aree protette, alle specie ittiche incluse e all’impatto dei metodi di pesca, ma anche ai fattori sociali, spesso sottovalutati» interviene Mathilde H. Autzen, dottoranda all’Università di Aalborg.
Hasanah Kehmasaw, membro della Fisherfolk Social Enterprise, porta una testimonianza dal Sud Est asiatico: «In Thailandia l’85% dell’attività ittica è artigianale. Le conoscenze tradizionali sono fondamentali per noi. Per questa ragione, cerchiamo di tener conto anche delle normative locali, non solo nazionali, al fine di tutelare i pescatori del luogo. Abbiamo infatti uno standard di certificazione legato alle comunità e al loro modo di operare, che sia anche formativo per i giovani e per le generazioni future. Le comunità devono sempre essere coinvolte in questo senso».
Gli aspetti sociali sono sicuramente da tenere in considerazione: «Il primo modo per farlo è essere sempre trasparenti e responsabili, in tutta la catena. Essere competitivi sul lato etico è un valore di fondamentale importanza se si vogliono ottenere certificazioni. I consumatori devono essere consapevoli di ciò che acquistano e considerati come dei coproduttori. La definizione di Slow Food “buono, pulito e giusto” deve valere per tutti gli stakeholders che interagiscono con la realtà della pesca» sostiene Caroline Bennett, fondatrice di Sole of Discretion, una coopertativa di piccoli pescatori inglesi.
«Dare definizioni alle politiche sociali da adottare in questo campo non è certamente semplice – conclude Alice Miller, collaboratrice dell’International Pole and Line Federation – la trasparenza deve però essere il motore di tutto ed è necessario che venga applicata in ogni fase della catena di approvvigionamento, dal produttore al consumatore».
I sistemi di certificazione attuali, nonostante presentino ancora imperfezioni, restano necessari per attuare politiche per il consumo sostenibile di pesce.